© cristian carrara
Furono i monaci, alla fine degli anni Novanta, a stabilirsi sulla collina di Poggi del Sasso, riconoscendone il carattere e la vocazione: un luogo remoto, segnato da un vecchio ovile in pietra e da una grande quercia che indicava, con evidenza naturale, un punto di concentrazione energetica. Quel paesaggio non era neutro. Era già carico di senso, e la prima responsabilità del progetto fu ascoltarlo, evitando qualsiasi gesto che lo potesse alterare. L’architettura sarebbe arrivata dopo, come risposta necessaria a un modo di vivere, non come premessa formale.
La trasformazione dell’ovile in Cappella del Pellegrino costituisce l’origine fisica e simbolica dell’intero complesso. L’intervento non modifica l’impianto primitivo: conserva i due muri antichi, le aperture verso il mare, la feritoia d’oriente, e aggiunge solo ciò che serve a definire la nuova funzione, con materiali semplici – legno, pietra, intonaci di terra – e con un abside che si solleva come l’esito naturale di un innesto controllato. Qui si stabilisce il primo asse fondativo del monastero: una linea che deriva direttamente dal luogo e che diventerà la geometria generatrice dell’intero impianto.
La Cappella, consacrata nel 2001, non è soltanto un edificio liturgico: è l’atto di nascita di un modo di costruire che assume la natura come matrice progettuale e che vede l’architetto, nelle parole dello stesso Milesi, come “strumento necessario a far vibrare e a catturare l’energia già prepotentemente presente nel sito”.
© cristian carrara
A partire da questo nucleo minimo si sviluppa il corpo principale del monastero: il quadrato claustrale. Il chiostro, misura archetipica della vita monastica, diventa la figura generatrice e il principio ordinatore dell’intero complesso. La sua geometria, derivata dalla tradizione benedettina e cistercense, non è soltanto un riferimento simbolico: organizza percorsi, funzioni e relazioni, assicurando compattezza, efficienza e una chiara distinzione tra gli spazi della vita comunitaria e quelli del lavoro e dell’accoglienza.
© Andrea Ceriani
L’edificio, composto da pietra nei piani bassi e legno in quelli superiori, si orienta in relazione alla luce, seguendo la tradizione cistercense che considera lo spazio sacro come luogo in cui la luce diventa rivelatrice e misura del tempo. Le aperture sono calibrate per limitare l’impatto sul paesaggio e per far sì che l’edificio, col passare del tempo, si mimetizzi nella collina, secondo una volontà di discrezione che guida tutte le scelte costruttive.
© andrea ceriani
La parte più pubblica del complesso prende forma con il secondo lotto, che comprende la biblioteca, le sale polifunzionali e l’agorà. Qui la luce viene filtrata da setti che modulano l’esposizione e dichiarano la natura laica dello spazio. La biblioteca, chiusura a sud del chiostro, accoglie attività culturali e di studio: è una soglia tra il nucleo monastico e il territorio, un luogo che amplia la funzione della comunità e ne consolida il ruolo come punto di riferimento culturale e spirituale della zona. Nelle parole di Milesi, questa parte del complesso “ha il compito di comunicare, di suscitare emozioni anche profonde con elementi semplici e rigorosi scelti in funzione dell’uso e della luce che illumina le loro forme e le loro superfici”. La luce, ancora una volta, è il primo materiale del progetto.
© andrea ceriani
Parallelamente, l’anfiteatro realizzato nello scavo delle fondazioni testimonia un’altra costante del progetto: la volontà di trasformare ogni intervento in un’occasione di relazione con il paesaggio. Le lastre in acciaio corroso, le essenze spontanee che invadono le fessure, il recinto di lamiera che marca l’intrusione umana destinata a essere nuovamente assorbita dalla natura, definiscono un luogo che è allo stesso tempo infrastruttura culturale e sezione aperta della collina.
© cristian carrara
Nel 2017 la Foresteria del Pellegrino completa il sistema dell’accoglienza. I volumi sono disposti lungo il pendio con l’obiettivo di non alterare i piani di campagna e di mantenere un rapporto diretto tra architettura e suolo. I materiali restano gli stessi: legno grezzo, pietra, intonaci in calce. L’impianto è sobrio e funzionale, coerente con l’idea che l’architettura debba essere strumento di servizio e non gesto autoreferenziale. La foresteria risponde alla vocazione originaria della comunità: offrire un luogo dove meditazione, studio e preghiera possano svolgersi lontano dal frastuono del mondo, in una relazione equilibrata con il paesaggio circostante.
© cristian carrara
La nuova chiesa, che verrà dedicata il 7 dicembre 2025, rappresenta la conclusione del percorso iniziato venticinque anni fa. Il volume, essenziale e rigoroso, riprende gli orientamenti liturgici cistercensi e lavora sulla luce come principale veicolo simbolico. Come nelle abbazie medievali, l’architettura è ridotta all’essenziale: superfici chiare, ombre controllate, luce zenitale, materiali primari. Qui si compie la sintesi della filosofia progettuale di Siloe: orientamento, proporzione, semplicità costruttiva, rapporto con la natura, funzionalità senza superfluo. La chiesa non è un oggetto isolato, ma il punto in cui convergono i significati, i percorsi e le relazioni costruiti negli anni.
L’idea che “luce e silenzio sono i veri materiali del monastero di Siloe” sintetizza questa filosofia: l’architettura non è protagonista, ma dispositivo percettivo; non cerca di resistere al tempo come oggetto, ma come luogo; non occupa il paesaggio, ma lo interpreta. Dopo venticinque anni, il complesso si presenta come un organismo unitario cresciuto per lotti funzionali, senza mai interrompere il rapporto con il contesto e con la comunità. È un’architettura che accetta la durata come processo e la collina come interlocutore. Un luogo dove natura, luce e costruzione dialogano senza conflitto, restituendo un paesaggio abitato con misura e rispetto.